Tra i tanti luoghi comuni sul buio da sfatare c’è anche il mito esotico della Notte Polare. Chi vive a Sud del Circolo Polare Artico è spesso convinto che dire Notte Polare significhi automaticamente parlare di 6 mesi di buio pesto e di 6 mesi di luce.

In realtà, la Notte Polare è una condizione molto più diversificata, molto meno tagliata col coltello e soprattutto, nella maggior parte dei casi, molto più luminosa di quanto si pensi. In questo senso, i clichés sulla Notte Polare sono il fedele riflesso di molti luoghi comuni che riguardano il buio in generale. Uno fra questi, per esempio, ha a che vedere con il rapporto tra buio e depressione che la lettura superficiale di alcune statistiche ha trasformato in un automatismo in buona parte molto lontano dalla realtà dei fatti.

Nei miei viaggi nell’Artico ho cercato di “fare luce” su cos’è la Notte Polare e su cosa non è, cercando anche di capire perché alcune chiavi di lettura del fenomeno sono così radicate e diffuse.

Le Notti Polari: c’è buio e buio

Come scrive Hans Rosling nel suo libro Factfulness, abbiamo la tendenza a guardare alle realtà lontane dalla nostra in base a un diffuso tic cognitivo, come se le monitorassimo dall’alto: ricavandone quindi una visione appiattita, come se al loro interno tutto fosse uguale e privo di sfumature. Questo capita spesso anche quando si parla di Notte Polare: il periodo di tempo in cui il sole rimane costantemente sotto la linea dell’orizzonte. L’errore consiste nella tendenza a fare di tutta l’erba un fascio: in realtà, esistono diverse declinazioni di buio e diverse Notti Polari, scandite principalmente dalla latitudine.

Partendo dalle latitudini più a Nord, cioè dai Poli, dai 18 gradi in su sopra il Circolo Polare Artico, durante la Notte Polare Astronomica si registrano effettivamente 24 ore di buio completo per tre mesi all’anno.

Scendendo più a Sud, dai 12° gradi in su oltre il Circolo, si ha la Notte Polare Nautica: il sole viaggia sotto la linea dell’orizzonte dai 12° ai 18°, diffondendo un debole chiarore (il crepuscolo astronomico) appena percepibile intorno a mezzogiorno.

Dai 6° in su oltre il Circolo, il sole rimane tra 6° e 12° sotto l’orizzonte e si registra la Notte Polare Civile. All’altezza delle Isole Svalbard, per esempio, verso mezzogiorno sarà visibile una luminosità più diffusa e meno diafana: il crepuscolo nautico.

Nella fascia più a Sud delle terre artiche, tra i 66°33’del Circolo Polare e i 72°33,’ il sole, per un lasso di tempo che varia a seconda della latitudine, si mantiene costantemente sotto la linea dell’orizzonte per un massimo di 6°. È il Crepuscolo Polare: il disco solare rimane invisibile ma la sua luce continua a irradiarsi dando origine a una sorta di lungo crepuscolo che si alterna con le ore di buio vero e proprio. All’interno di questa flebile fascia diurna, esiste poi un’intera gamma di sfumature luminose differenti. Fino al finis terrae con il buio notturno: la famosa “ora blu”. Una porzione di tempo in cui il paesaggio si tinge di una misteriosa luce azzurra che sembra sorgere dalla terra.

La neve, un potente moltiplicatore di luce di cui non si tiene conto

La prima volta che scendo dall’aereo, a Ivalo, il mio primissimo impatto invernale con la Lapponia finlandese non è con il buio ma avviene proprio all’insegna dell’“ora blu”. Una luminosità contenuta ma pervasiva, quasi una fluorescenza amplificata dalla neve che sembra sfumare i contorni delle cose. Ivalo si trova a 68°40’, appena due gradi sopra il Circolo: rientra quindi nella fascia del Crepuscolo Polare.

Kaamos (in Finlandia, la Notte Polare viene chiamata così) qui dura 36 giorni. Me ne parla un amico di Ivalo, che mi racconta come la presenza del sole declini gradualmente: dal 13 novembre, il disco solare è visibile a Ivalo solo per tre ore al giorno. Poi, a partire dal 4 dicembre fino al 9 gennaio, il sole diventa invisibile. Non la sua luce, però. Il lungo crepuscolo delle ore diurne sgrana un caleidoscopio di colori che vanno dal rosa dell’aurora al rame ambrato del tramonto. Ma anche la notte ha le sue luci, quando il cielo non è nuvoloso: se il disco solare è invisibile, infatti, la Luna continua a viaggiare nel cielo seguendo i suoi ritmi e l’aurora boreale disegna lunghe pennellate verde smeraldo.

C’è poi una variabile di cui tener conto. Un elemento di cui non avevo considerato l’impatto in termini di luminosità, cioè la neve. Me ne parla Piritta, un’insegnante di yoga di Helsinki che si è trasferita a Kuusamo. “Tempo fa, ho conosciuto un italiano che è venuto qui nel mese di ottobre e ci è rimasto malissimo” mi racconta “Chi viene dal Sud pensa che qui, il periodo di buio coincida con la Notte Polare. In realtà non è del tutto vero. La differenza, la fa soprattutto la neve. All’inizio dell’autunno, per esempio, il disco solare è ancora visibile eppure per noi ottobre è il mese della terra buia. La terra è spoglia perché non ci sono più né erba né foglie e la neve non è ancora arrivata. Tutto sembra scurissimo, e anche se il sole c’è ancora, quei giorni sono i più deprimenti. Li viviamo in un’atmosfera di attesa, aspettando che la neve riporti la luce.”

Notte Polare e depressione: un’equazione non così scontata

Secondo la letteratura più diffusa, il lato oscuro della Notte Polare sul piano psicofisico è il Disturbo Affettivo Stagionale (SAD) teorizzato da Norman Rosenthal negli anni Ottanta. Sul fenomeno, in realtà, esistono anche oggi chiavi di lettura diverse e alcuni studiosi relegano il disturbo nel campo della mitologia psichiatrica. Esistono tuttavia alcuni elementi oggettivi, che hanno a che vedere con il ridotto apporto di vitamina D – sintetizzata principalmente a partire dall’esposizione ai raggi solari – e con l’incremento della produzione di melatonina, il cosiddetto “ormone del sonno” che rappresenta il complemento e il logico contraltare dell’“ormone del buonumore”, la serotonina. La produzione della melatonina si attiva col buio, mentre il rilascio di serotonina viene attivato dalla luce solare.

Tutti fattori che, almeno in parte, spiegano l’aumento della sonnolenza e i sintomi depressivi del cosiddetto “winter blues”. Le cure più diffuse, sono in parte la terapia farmacologica (con integratori a base di vitamina D) ma soprattutto la fototerapia, praticata con lampade di potenza superiore rispetto a quelle comuni. A Nuuk, René, un amico groenlandese, mi aveva già accennato qualche anno fa a questo tipo di terapia – praticata, mi dice, anche in ospedale – che conosceva però solo per sentito dire.

In Finlandia, un amico mi dice di soffrire di una sintomatologia blandamente simile a quella della SAD nel mese di febbraio, quando – paradossalmente – la luce solare ha già iniziato a tornare ma si soffre a posteriori del cumulo di ore di buio che si hanno alle spalle. Il buio pesa. E non coincide necessariamente con la Notte Polare: nel Nord della Finlandia, secondo la percezione di molti, il mese più duro è quello che precede l’arrivo della neve. Ottobre, quindi: il mese della terra buia di cui mi parlava Piritta.

La stagione degli amori per i finlandesi e il “bel tempo” per gli Inuit groenlandesi. I diversi volti della Notte Polare

La realtà cambia a seconda del punto di vista da cui la si guarda. La stessa cosa vale per quanto riguarda la percezione della Notte Polare. Pensandola dalle nostre latitudini, abbiamo una visione molto più estrema sia della sua oscurità che del suo impatto emotivo. La percezione dell’incidenza – ma soprattutto della gravità – della SAD su al Nord è molto più estrema considerata dall’esterno. La maggior parte delle persone che ho conosciuto sul posto, ne ha minimizzato la portata manifestando anche un certo stupore all’idea che da noi se ne parlasse tanto.

Sul legame tra depressione e latitudine esistono dubbi concreti anche all’interno della comunità scientifica: diversi studi in Norvegia e in Islanda, hanno rilevato una scarsa incidenza del disturbo. Parallelamente, altri studi – come quelli Anthony Levitt in Ontario – sembrano addirittura suggerire che alcune forme di SAD siano più frequenti tra le popolazioni che vivono a latitudini meridionali.

Al di là della diffusione della SAD, inoltre, per chi vive al Nord, la Notte Polare ha un intero spettro di valenze aggiuntive. È per esempio considerata la stagione degli amori. Aimo, un amico finlandese, mi ha riferito un detto popolare che suona più o meno così: “L’estate è fatta per pescare e fare l’amore. In inverno… non si pesca.” Il sottointeso è piuttosto ovvio. Robert Peroni, in Groenlandia, mi ha invece detto che per gli Inuit il cosiddetto “bel tempo” non è quello soleggiato dell’estate, ma la stagione invernale. Per il semplice fatto che quando la superficie del mare e dei laghi è ghiacciata, è più semplice andare a caccia per procacciarsi cibo e viaggiare. Questo, peraltro, è un aspetto che riguarda tutto il Nord. La Notte Polare non è la stagione del buio totale ma è la stagione del ghiaccio. E sul ghiaccio, paradossalmente, è più semplice spostarsi. Basti pensare alla Finlandia, un Paese frammentato in terre e laghi, che in inverno si trasformano in un’unica pista facilmente attraversabile in motoslitta.

Su al Nord, peraltro, il periodo della Notte Polare coincide anche con il picco della stagione turistica e con l’arrivo dei “cacciatori di aurore”, con conseguente intensificazione degli scambi internazionali. In ultima analisi, nei mesi invernali il Nord è tutto meno che solitario, buio e ovattato.

Ma allora, perché – per noi che viviamo a Sud – la percezione della Notte Polare punta così tanto sulla sua identificazione con il buio? Per motivi che hanno strettamente a che vedere con la nostra cultura, che non è una cultura della luce ma una cultura dell’illuminazione. Artificiale.

Perché, guardato dal Sud, il buio artico sembra molto più buio? La realtà è fatta di percezioni

Il buio è uno degli aspetti più demonizzati e rimossi dalla società in cui viviamo che è – nella sostanza – una società istericamente diurna. Basti considerare l’incremento dell’inquinamento luminoso, un fenomeno sempre più in crescita secondo i dati. Ma l’inquinamento luminoso è in realtà solo la punta dell’iceberg. Nel 1933, Jun’ichirō Tanizaki scriveva il suo bellissimo “Libro d’ombra” criticando la diffusione dell’illuminazione occidentale in Giappone e rivendicando, appunto, il diritto a alla propria porzione vitale di oscurità: “C’è forse, in noi Orientali, un’inclinazione naturale ad accettare i limiti, e le circostanze della vita. Ci rassegniamo all’ombra, così com’è, e senza alcuna repulsione. La luce è debole? Lasciamo che le tenebre ci inghiottano e scopriamo la loro bellezza. Al contrario, l’Occidentale crede nel progresso, e vuol mutare di stato. È passato dalla candela al petrolio, dal petrolio al gas, dal gas all’elettricità, inseguendo il mito di una chiarità che snidasse fino all’ultima particella d’ombra”.

Una tematica che, neanche troppo alla lontana, anticipa le riflessioni di Philippe Ariès, che in “Storia della morte in Occidente” parlò di un’altra rimozione forzata: quella della morte, prima condivisa e accettata come parte integrante della vita e oggi ostracizzata e confinata nell’invisibile anonimato dei reparti ospedalieri. D’altra parte, la morte è la gemella siamese del buio. Per tutti questi motivi, per noi che veniamo da Sud la Notte Polare è un potente faccia a faccia con l’oscurità: quella che manca alle nostre latitudini. Il buio che ci spaventa, che ci annichilisce ma che è così vitale come controparte della luce. Quello senza cui è impossibile vedere le stelle.


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