Diciamocelo, parlare di inquinamento luminoso è una gran bella gatta da pelare. Il punto è far percepire il problema come tale. Cioè come un problema reale. Non ci vuole molto a convincere qualcuno che l’inquinamento atmosferico provoca danni. Già con l’inquinamento acustico, invece, le cose non sono così semplici: se i limiti più eclatanti oltre cui si può parlare di danni sono oggettivi, già il discorso cambia quando si parla di invasività. Un esempio fra i tanti, il fenomeno della “musica passiva”: non la musica di sottofondo tout court, che può anche starci, ma la musica di sottofondo elevata a sistema. Un vero e proprio esorcismo del silenzio. Che a molti piace.

La liaison col tema del buio scatta in automatica. Sia perché l’inquinamento luminoso – esattamente come quello acustico – è una forma di “inquinamento Cenerentola”, di cui si parla poco, sia perché in entrambi i casi per prendere il toro per le corna è necessario affrontare il problema di base (che è lo stesso). Cioè l’horror vacui.

Il fallimento dell’Operazione Cieli bui sotto il governo Monti

I progetti e le iniziative per contrastare l’inquinamento luminoso non sono pochi: basti pensare, in Italia, all’associazione “Cielo Buio – Coordinamento per la protezione del cielo notturo” o all’ “International Dark Sky Association”.

Di passi avanti se ne sono anche fatti, in alcuni Paesi, ma le difficoltà sono evidenti. Basti pensare, più di dieci anni fa, al clamoroso fallimento dell’Operazione Cieli bui prevista dalla legge di stabilità dell’allora governo Monti. Il provvedimento – adottato, va detto, in un’ottica di risparmio e non di tutela del cielo notturno – prevedeva lo spegnimento totale o parziale dell’illuminazione pubblica durante le ore notturne ed era stato a suo tempo duramente osteggiato, provocando anche spaccature interne tra gli stessi ambientalisti. In parte, sulla scia dell’equazione luce = sicurezza pubblica (in realtà gli studi in merito hanno sempre dato risultati tutto meno che univoci), in parte per motivi molto meno razionali. «Con l’operazione Cieli bui il governo Monti ci riporta al coprifuoco, spegne le città e accende la depressione» scrisse qualcuno.

A distanza di dieci anni, causa caro bollette, diverse città italiane ed europee hanno scelto di spegnere le luci pubbliche durante le ore notturne. Non certo per ridurre l’inquinamento luminoso, però. A livello internazionale, i paesi che hanno scelto di spegnere l’illuminazione pubblica notturna per vedere le stelle esistono, ma sono indubbiamente ancora troppo pochi per rappresentare un trend reale. In Francia, spesso – come a Montsegur – questi comuni segnalano l’iniziativa con un cartello che sotto al profilo di un gufo riporta la scritta “Questo paese ama le stelle”. Niente male, ma è un fatto che iniziative simili fatichino a decollare e a trasformarsi in una tendenza capace di invertire seriamente la rotta.

cartello stradale all’entrata di Montsegur (Fonte: Martina Fragale)

Perché è così difficile parlare di inquinamento luminoso?

Riassumendo: equazione luce = sicurezza pubblica e identificazione del buio con senso di privazione, austerità, coprifuoco, tristezza. In realtà, diciamocelo, l’aleatorietà del legame tra luce e sicurezza pubblica (una connessione più percepita che reale) lascia intendere quanto, molto più che per altri temi, quando si parla di buio e di inquinamento luminoso, le remore ad affrontare l’argomento e a riconoscerlo come un problema siano soprattutto emotive.

Abbiamo già parlato dell‘identificazione della Luce con il Bene e del Buio con il Male e di quanto questo mantra faccia parte della nostra cultura, tanto religiosa quanto laica. Ed è da qui che bisogna partire.

Parlare di inquinamento luminoso senza tener conto di questo complesso humus emotivo e culturale, rischia di circoscrivere il tema a un problema percepito come tale solo da astrofili, darkettoni, romantici eccentrici e simili. Non poter più vedere le stelle è un problema, che rappresenta però solo la punta dell’iceberg.

Ecco perché serve partire da quello che è il nocciolo della questione e costuire (o meglio, ri-costruire) una cultura del buio prima per parlare di inquinamento luminoso poi. Questione di tempistiche, quindi, ma anche di chiavi di lettura. Tornare, come scrive Dante, a “riveder le stelle” per molti – che ci piaccia o no – non è un grosso problema e trincerarci dietro a quella che è, purtroppo, una priorità di nicchia, non ci aiuterà ad arginare l’inquinamento luminoso.

Ci sono, però, altre conseguenze dell’assenza di buio su cui si può far leva. Conseguenze che hanno un impatto diffuso sul piano psicofisico e sul nostro universo simbolico. Dallo sbilanciamento del ritmo circadiano e dei livelli di melatonina ai veri e propri problemi del sonno. Passando per l’oggettivo disagio – ormai così diffuso – ad affrontare e accettare quelli che sono i correlati simbolici del buio, come la depressione, le battute d’arresto di qualsiasi tipo e la morte.

E poi c’è un altro punto di partenza possibile oltre ai problemi generati dall’assenza di buio. Ovvero, le opportunità generate dalla presenza del buio. Il buio inteso come soluzione, quindi. Come risposta terapeutica o come soluzione reale: basti pensare, sul piano degli ecosistemi, all’esigenza “ambientale” di buio. Con o senza stelle.

Quello che serve è ripartire proprio da qui per riappropriarci di una cultura del buio che in realtà è sempre esistita e che aspetta solo di rientrare dalla porta principale per tornare a fare, sanamente, da contraltare alla Luce.


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