A vederla, nelle immagini sgrezzate dagli scultori contemporanei, sembra una sirena. Ma lassù, sulle coste della Groenlandia e di Nunavut – la patria degli Inuit, che sconfina tra due continenti – non ci sono sirene.

Un tempo, Sedna aveva molti nomi. C’è chi la conosceva come Arnaqquasaaq e chi la chiamava Nuliajuk: esattamente vent’anni fa, il suo nome è stato dato a un asteroide ma nella notte dei tempi Sedna era una delle principali divinità inuit. Una dea che nacque donna e che diventò dea nel buio profondo degli abissi.

La favola di Sedna

In Italia, il lavoro più approfondito su Sedna è quello di Giuliana Pandolfi, che affronta il tema in una prospettiva prevalentemente astrologica e seguendo la versione più classica – e anche più soft – della leggenda inuit.

Sedna, bellissima figlia di un padre rimasto vedovo, rifiuta tutti i suoi pretendenti scontentando il genitore che vorrebbe darla in sposa a qualcuno. Quando si presenta un uomo misterioso che le promette, prendendola in moglie, una vita di agi e di ricchezza, Sedna – spinta dal padre –  acconsente a seguirlo sul suo kayak.

Raggiunta un’isoletta spoglia e sporca, lo sposo si trasforma però in un piccolo uccello nero: una procellaria. Sedna è sua moglie e dovrà rimanere con lui per sempre. La giovane donna, disperata, piange finché i suoi lamenti raggiungono il padre il quale (pentito di averla data a uno sconosciuto) va a prenderla col suo kayak per portarla in salvo.

Ma lo Sposo Uccello, che non si rassegna alla perdita della moglie, batte le sue ali fino a scatenare una tempesta. Il padre di Sedna, impaurito, decide di liberarsi della figlia e la getta in acqua. E quando Sedna, disperata, tenta di aggrapparsi all’orlo del kayak per non annegare, l’uomo le spezza le dita con i remi finché vede la figlia scivolare nelle acque.

È così, sprofondando negli abissi, che Sedna si trasforma nella Dea del Mare e di Adlivun, il regno subacqueo dei morti. Dalle sue dita mozzate nascono le tre razze dei mammiferi marini: foche, balene e trichechi, i figli di Sedna, secondo gli Eschimesi.

La dea diventa così la dispensatrice di nutrimento degli Inuit a cui però , spesso e volentieri, lesina i suoi doni. Quando gli uomini violano i suoi tabù, infatti (per esempio pescando più di quanto necessitino realmente) Sedna imprigiona i figli nella sua folta capigliatura e foche, tricheci e balene iniziano a scarseggiare in superficie. Questo finché l’angakkuq – lo sciamano inuit – non raggiunge Sedna viaggiando in astrale verso il fondo del mare per pettinare i capelli che la dea senza dita non può dirimere e per cercare di comprendere i motivi che l’hanno offesa.

Questa è la leggenda più nota: quella che ha generato una chiave di lettura che equipara Sedna – in quanto Dea Oltraggiata – al mito della Persefone nostrana e che allo stesso tempo ne fa sia una Dea Madre (mater terribilis) sia – in coincidenza, nel 2003, con la scoperta dell’asteroide chiamato col suo nome – una sorta di “paladina ecologica” che difende la Natura dall’eccesso di sfruttamento dell’Uomo.

Fonte: Eric Muhr su Unsplash

Il lato oscuro del mito (dove la vittima non è affatto vittima)

Nel giornalismo e nello storytelling costruttivo, c’è un imperativo categorico che, nelle nostre storie, tendiamo sempre a portare alla ribalta: kill the victim. Ovvero, evitare di concentrarsi morbosamente sugli aspetti vittimistici e portare alla luce le tante sfaccettature di una storia è cosa buona e giusta perché arricchisce la narrazione e, al contempo, rende un grande servizio alla realtà. In questo senso, nella storia di Sedna, di elementi che ci permettono di uccidere la vittima ce ne sono a iosa. Tutto grasso che cola, quindi.

Il mito di Sedna è infatti molto più complesso e molto meno univoco di quanto sembri di primo acchito e la vittima – come spesso accade anche nella realtà – non è proprio vittima a tutto tondo ma un po’vittima e un po’carnefice. In modo piuttosto pulp, peraltro. In una versione, per esempio, il padre non è vedovo: ha una moglie – la madre di Sedna – a cui la figlia, che rifiuta insistentemente marito, ha divorato entrambe le braccia.

Il giorno in cui la vorace ragazza divora anche un braccio del padre, l’uomo la carica sul kayak e la getta in mare mozzandole le dita con un remo. Da qui in poi, il resto della storia coincide con la prima versione anche se in questo caso Sedna, divenuta Dea del Mare, come primo atto divino provoca un’inondazione che trascina con lei entrambi i genitori, i quali entreranno a far parte della sua corte.

In un’altra versione, invece, prima del misterioso Sposo Uccello, il padre (esasperato dalla ritrosia di Sedna) le porta il suo cane invitandola ad accoppiarsi con lui. La figlia ubbidisce senza farselo dire due volte, si innamora dell’animale e genera con lui i capostipiti dell’uomo bianco e degli Indiani d’America. Davanti a questo parto mostruoso il padre, inorridito, farà uccidere il cane e consegnerà la figlia allo Sposo Uccello.

Le varianti del mito sono piuttosto esaustive. Anche volendole collegare a fattori contingenti che riguardano il rapporto della società eschimese con il cannibalismo e la zoerastia, le parti più “scabrose” – e meno raccontate – della storia di Sedna suggeriscono un profilo diverso da quello di chi la bolla con l’etichetta di Dea Oltraggiata.

Benché anche per lei, la maturità coincida con la trasformazione in regina dei morti, Sedna non è Persefone. Non è una kore innocente, non è la vittima per antonomasia: è una dea dal profilo molto più complesso.

Ce lo dicono anche i suoi molti nomi, peraltro. Oltre a Madre del Mare, Amante del Mare, Grande Donna Crudele, Sedna è invocata anche come Sassuma Arnaa, cioè Madre del Profondo: un nome che riassume alcuni degli aspetti chiave della dea.

Madre del Profondo: la dea Sedna e il Buio

Partiamo dalla prima parte del nome, cioè dall’idea di maternità che in Sedna assume una connotazione particolarissima. La maternità della dea inuit, infatti, ha ben poco a che vedere con la capacità generativa delle dee madri (manca il fecondatore) ma rappresenta anche qualcosa di distinto dalla partenogenesi di Gea. Dal bastare a se stessa. I figli di Sedna (le balene, le foche e i trichechi che nascono dalle sue dita mozzate) vengono alla luce nel momento in cui la Sedna mortale si metamorfosa in Dea del Mare. Senza morire, per altro. O meglio: nei miti di Sedna la morte, forse, viene sottointesa ma non è mai apertamente nominata.

La metamorfosi divina non rientra nella parabola del Dio Ucciso e Risorto ma piuttosto in un processo trasformativo che si sviluppa in continuum. La giovane donna ribelle si metamorfosa in Dea, le sue dita amputate rinascono come mammiferi marini che moriranno nuovamente per nutrire il popolo Inuit. Che a sua volta, dopo la morte, raggiungerà Adlivun sul fondo del mare.

Quella di Sedna, è una metamorfosi nel buio, una trasformazione nel Dolore che inizia con un radicale taglio del cordone ombelicale: metaforicamente, nel momento in cui il padre le mozza le dita che (come ricorda Hillman nei suoi “Saggi sul Puer”) “sono la parte puer delle mani e le ferite del puer sono ferite da cui esce lo spirito creativo di Fuoco“.

Svincolata – traumaticamente – dalle radici che la connettevano al genitore, Sedna sprofonda negli abissi ed è lì, sul fondo del mare, che trova l’Athanor a cui attinge le proprie capacità generative e anche la sua nuova identità di dea: madre, sì, ma di se stessa. Anzi, Madre del Profondo. Dall’egoismo cannibalico della vita terrena – quando banchettava allegramente con le carni dei propri genitori – Sedna si trasforma quindi in alma mater, che nutre gli uomini con mammiferi marini generati dalle sue dita recise. Cioè dal suo corpo e dal suo dolore.

Certo, l’immagine presta il fianco a ovvie interpretazioni cristiche e viene spontaneo pensare al simbolo del Pellicano – che si trafigge per nutrire i cuccioli col proprio corpo – ma la verità è che Sedna è lontana anni luce dal mito del Grande Sacrificio. Lo dimostra quell’aspetto della sua storia che oggi, da molti, viene letto come una sorta di “metafora ecologica”. In passato, quando gli Inuit cacciavano una foca o un figlio di Sedna, dovevano stare bene attenti a non uccidere un cucciolo o a non depredare il mare di più di quanto servisse al loro stretto fabbisogno. In caso contrario, la vendetta di Sedna sarebbe stata terribile.

L’alma mater eschimese è severa e implacabile come la natura della Groenlandia. O forse, semplicemente, è l’immagine di un Dare e di un irradiare Vita, che non includono nel loro orizzonte la possibilità del sacrificio di Sé, se questo sacrificio rischia di compromettere l’equilibrio della sostanza vitale.


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