Quando abbiamo deciso di aprire una sezione del nostro sito chiamandola “La Notte dei popoli” lo abbiamo fatto pensando a tre cose. Alla notte intesa come metafora del buio: il buio, però, pensato non come sipario – il classico the end – ma come bozzolo trasformativo. Abbiamo anche, naturalmente pensato al concetto di crisi nella sua valenza etimologica: “scelta” quindi, “punto di svolta”. E infine, abbiamo pensato all’idea di popolo considerato come un’entità collettiva in costante cambiamento e trasformazione.

Una visione nottura dei popoli che attraversano fasi di crisi

Nella sezione “La Notte dei popoli” parleremo quindi di popolazioni che stanno attraversando una fase di crisi intesa come riformulazione e trasformazione che prescinde sia da chiavi di lettura catastrofiste, sia da visioni pregiudizialmente positive. Questo tipo di visione è necessaria a maggior ragione quando si parla di popolazioni autoctone, i cosiddetti nativi.

Sia che si parli di nativi del Sud o del Nord del mondo, è facile infatti cadere nella trappola di quella visione così tipica dei Paesi sviluppati che – come controparte della propria porzione di mondo – tendono ad alimentare il mito purista del buon selvaggio. Un profilo irreale che, secondo queste chiavi di lettura, dovrebbe continuare a esistere immobile e fedele a se stesso, come se si collocasse fuori dal tempo.

Continuare a pensare ai Lapponi, o agli Inuit, come se il loro iter naturale dovesse mantenerli per sempre allo stadio di miti e sorridenti cacciatori o pastori di renne che vivono in simbiosi con la natura significa rimanere invischiati in un bias abbastanza tipico dell’uomo moderno: la famosa “negazione di coevità” di cui parlano diversi antropologi. Una visione che implica, come diretta conseguenza, anche il mito della vittima che deve esistere per legittimare il desiderio narcisistico del difensore di vedere se stesso come un cavaliere senza macchia e senza paura in difesa dei deboli.

Alimentare questa visione, parlare di crisi di una popolazione nativa in senso catastrofista, continuare a cercare una vittima e chiedere indirettamente alle popolazioni autoctone di rimanere immobili nel tempo significa fare torto alla realtà. Così come chiedere purezza significa fare torto alla vita, che è tale proprio perché funziona grazie alla spinta opposta: quella che muove costantemente verso la contaminazione e l’ibridazione.

Kill the victim!

Uno dei principali mantra del giornalismo costruttivo – di cui parla anche Cathrine Gyldensted nel suo From mirrors to movers – recita così: kill the victim. Uccidi la vittima. Un’esortazione che, fuor di metafora, significa cercare di uscire da una narrazione manichea che tende a leggere la realtà come popolata esclusivamente da vittime e carnefici. Uccidere la vittima significa in primo luogo evitare di incasellare il proprio interlocutore nel ruolo – puramente supinto – dell’Innocente abusato e sostanzialmente agìto da altri.

E’ quello che cercheremo di fare nella sezione “La Notte dei popoli”. Con un focus sulle popolazioni native dell’Artico, parleremo di trasformazioni. Di identità in via di ridefinizione. Di abitanti della Groenlandia e della Lapponia che esulano dai clichés che li vorrebbero statici come un orologio senza lancette.

Sorvoleremo identità ibride come pastori di renne che usano i droni, giovani rapper groenlandesi, popolazioni lapponi per cui la difesa dell’ambiente e del proprio spazio vitale passa attraverso l’opposizione a parchi eolici o a miniere di materiali vitali per lo sviluppo delle tecnologie green. Parleremo di contraddizioni. Di buio generativo. Di notte intesa come naturale crogiolo di ibridazione. E lo faremo – come scrive Gianluca Ligi nel suo libro Lapponia. Antropologia e storia di un paesaggio – “in base a un’ottica antropologica dinamista, che concepisce le culture come campi di relazioni in continuo cambiamento“. Una visione che il giornalismo costruttivo e lo storytelling costruttivo abbracciano in toto.


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