La cecità è un salto nel buio ma anche un potente amplificatore degli altri quattro sensi, che in assenza della vista iniziano a farsi strada e a venire alla luce. Quella che nasce, poco alla volta, è una nuova percezione della realtà fatta di suoni e di odori. Antonio Panzera, pianista e clavicembalista non vedente, racconta il suo mondo. Un mondo nato dal buio

Un salto nel buio: imparare a guardare il mondo da capo

Iniziamo da una domanda preliminare doverosa: a che età hai perso la vista?

A 11 anni, per via di un glaucoma congenito. Ero un bambino curioso, che amava moltissimo leggere. Conta che leggevo davvero di tutto, da Topolino ai cartelli stradali… Il primo spaesamento che ho provato, è stato proprio rispetto a questo.

Il fatto di non poter più leggere?

Sì, anche se chiaramente la percezione di ciò che era successo è stata un po’smorzata dall’età, almeno all’inizio. A 11 anni sei ancora un bambino. Ero convinto che prima o poi, avrei potuto leggere di nuovo.

Immagino che la sensazione iniziale sia stato un vero e proprio blackout, non solo in termini fisici.

Sì, più che la perdita della vista in sé ricordo la sensazione di completo smarrimento, il disorientamento davanti all’esigenza di acquisire nuovi strumenti, nuove chiavi di lettura. Il fatto di dover imparare a leggere in brail, per esempio: non volevo! Non volevo, soprattutto, che i miei compagni di classe mi vedessero leggere usando strumenti che loro non utilizzavano. Poi un giorno è successo qualcosa: un episodio semplicissimo, che però mi ha fatto capire che le cose erano davvero cambiate. Stavo portando il mio quaderno al professore di scienze quando tornando al mio banco ho sbagliato strada e sono andato a sbattere: di colpo, ho capito che la mia vita era cambiata sul serio e in modo irreversibile.

I vedenti utilizzano in modo prevalente la vista, a discapito degli altri quattro sensi. Come si è ricostruito il tuo universo percettivo e come si è strutturato il tuo modo di utilizzare in senso compensativo l’udito, il tatto, il gusto e l’olfatto? Uno di questi sensi ha sostituito la vista, nel senso che lo usi in prevalenza? O tra i vari strumenti percettivi c’è piuttosto un rapporto sinergico?

Non saprei dirti in quanto tempo si è ristrutturato il mio universo percettivo. Sicuramente è stato un processo lungo, è passato molto tempo. Tra i quattro sensi che utilizzo, il tatto certamente è importante (per leggere il brail, per esempio) ma di fatto è con l’udito che riesco a raccogliere più informazioni in assoluto.

Hai avuto la sensazione di “imparare a vedere” con gli altri quattro sensi?

Quando ci vedi non pensi nemmeno lontanamente a tutte le informazioni che ricevi dagli altri sensi. Quando devi fare di necessità virtù, ti accorgi invece che l’udito, il tatto, l’olfatto ti portano una miriade di informazioni. Per esempio, in metropolitana. I vedenti spesso non si accorgono che c’è una voce che segnala le fermate: io invece ho le orecchie sempre tese. E poi impari a ingegnarti, inizi a usare trucchetti empirici: quando, parecchi anni fa, l’altoparlante ancora non annunciava le fermate della metro, avevo imparato a sentire che in alcuni punti la galleria faceva uno sferragliamento diverso. Oppure, che ne so?, allunghi le orecchie per sentire se qualcuno intorno a te dice “ah, questa è Cairoli.” Non ho imparato da solo, comunque: al mio fianco ho avuto un’ istruttrice di orientamento e mobilità che da tempo ormai è diventata un’amica. Ricordo benissimo i consigli spiazzanti che mi dava all’inizio. Del tipo: “Per andare dritto, tu semplicemente non devi star lì a pensarci troppo su. Quando vai storto, è proprio perché cerchi di andare dritto.” Ed è vero. Il punto è imparare ad ascoltare. Per percepire un muro, per esempio: sei in grado di sentire un pieno anche a distanza di metri. Man mano che ti avvicini senti che c’è qualcosa.

Lo senti a partire dall’udito, quindi?

Non te lo so dire. Io uso il verbo “sentire”, ma non si tratta di un suono. Allo stesso tempo, non posso nemmeno dirti che si tratti di una percezione extrasensoriale. C’è chi parla di campo magnetico. Magari, chissà, è una sensazione che nasce da una sorta di collaborazione tra gli altri sensi. O forse è una risorsa che avremmo tutti ma che abbiamo disimparato ad usare.

Il risveglio degli altri sensi: quando la vista passa il testimone all’udito

Nel momento in cui incontri una persona che non conosci, qual è il filtro percettivo che ti aiuta a farti un’idea di massima di chi ti sta di fronte?

La voce. Il suono della voce di una persona può dire molto del suo carattere. D’altro canto, mi manca tutta una serie di informazioni: quelle che emergono dagli sguardi o dalla postura. Mancando queste cose, per me l’immagine dell’altro si costruisce a partire dalla voce.

Quali sono le informazioni – fisiche e non – che ricavi dal suono della voce?

Bè, ti parla dell’altezza, per esempio (se hai la persona davanti a te). Ti dà anche alcune suggestioni illusorie, però. Molti mi chiedono “come mi immagini?” e io, spesso, sbaglio e descrivo un’immagine che c’entra poco – fisicamente – con la persona che mi sta di fronte. E’ normale perché di fatto, attraverso la voce, un po’percepisci e un po’immagini. Anche se ti dirò, per me l’immagine della persona non è così importante, non mi interessa più di tanto. La mia percezione della realtà è proprio diversa da quella di un vedente, me ne rendo conto anche da questo punto di vista.

Su cosa ti basi, quindi?

Su quello che per me è l’aspetto fondamentale: ciò che è veicolato tramite la voce. L’anima, se vogliamo chiamarla così. Non potendo vedere, poi, hai dalla tua un’enorme risorsa: la consapevolezza che la percezione è sempre un tirare a indovinare, nel senso cioè che sei più cosciente dei tuoi errori, e dei tuoi filtri. Non lo dico solo da un punto di vista negativo. Per esempio, mi ritengo fortunato a non vedere come si vestono le persone perché questo mi permette di non giudicare.

Eh già… immagino che il fatto di non vedere riduca anche l’incidenza di alcuni bias.

Esatto. Non vedere riduce i condizionamenti cognitivi.

Fonte: Ameen Fahmi (da Unsplash)

Il mondo degli odori

Parliamo della dimensione olfattiva: che ruolo hanno per te i profumi? Quanto ti aiutano a percepire la realtà intorno a te?

Se cammino per strada, gli odori (non solo i profumi) hanno una funzione descrittiva. Tipo, se passiamo vicino a un supermercato io me ne rendo conto subito: quello che riconosco, non è il profumo del cibo ma l’odore di alcuni oggetti, di plastica, che si trovano nella zona delle casse. Difficile descriverlo, è come provare a descrivere i colori. Se non li hai mai visti non puoi. L’odore di cibo può identificare, invece, diverse tipologie di luoghi: potrei essere davanti a una casa, ma se ci sono rumori di piatti, tazzine o simili è più probabile che sia un bar. Un altro aspetto interessante è che alcuni luoghi sono riconoscibili ovunque: il supermercato, a Milano o a Gerusalemme, ha lo stesso odore.

Rispetto alla percezione di una persona, che ruolo hanno gli odori?

In realtà li colgo solo in casi rari. Quelli che riconosco, di solito, sono i profumi o l’odore del sapone. Un mio collega, per esempio, ha sempre lo stesso profumo ed è l’unico che lo usa per cui, quando arrivo in sala professori e sento quell’odore, io so che è stato lì.

E a livello evocativo, rispetto alla dimensione del ricordo?

Sì, l’aspetto evocativo conta, soprattutto se sei stato legato a una persona. Tempo fa, per esempio, i miei avevano comprato dei mobili nuovi per la camera. Quel legno nuovo, profumatissimo, mi ricordava il profumo di una persona a cui ero stato legato e che in un certo senso, riportava vicino a me. Ne ho addirittura sofferto.

A proposito, visto che parliamo di memoria, come ti immagineresti un corrispettivo dell’album dei ricordi? Lo faresti utilizzando i profumi?

No, assemblerei piuttosto ricordi di dialoghi e momenti filtrati tramite poesie. La poesia, per me, è la via di mezzo tra la parola e l’immagine. Parole scritte, quindi, ma non sotto forma di diario.

Viaggiare senza il filtro della vista. Un nuovo sguardo sul mondo

Tu viaggi molto: sei stato anche in Cile, dall’altra parte del pianeta. Raccontami con i tuoi occhi (l’espressione, non la uso a caso) i luoghi che ti hanno più colpito.

Amo molto viaggiare e sì, di luoghi del cuore ne ho diversi. I monti Sibillini, per esempio. Ricordo, dopo una lunga camminata in un bosco, di essere arrivato in una grande radura. Il vento era fortissimo ed ero – o meglio, mi sentivo – parecchio in alto. In realtà, l’altezza sarà stata 1400 metri o giù di lì, ma mi sembrava di essere sulla vetta del mondo. Un altro luogo di cui mi è rimasto un ricordo indelebile è Stonehaven, nel nord della Scozia. Durante una delle escursioni, ero salito su un promontorio a strapiombo sul mare. L’impressione era stupenda. L’immagine sonora, acustica, che ti crei di quel luogo è meravigliosa: sentivi il mare che si frangeva sugli scogli, giù in basso, gli uccelli (non solo gabbiani, ce n’erano altri che non conoscevo), il vento, le piante che sfioravi. Tra i primi arredi di  casa mia ho voluto una foto scattata in quel luogo e certo, uno dice “che senso ha?”: del resto non la posso vedere. ma quel luogo, io ce l’ho dentro, conosco l’immagine sonora che manca all’impronta visiva. E’ uno dei posti più belli che io abbia mai visto: sì, si può dire visto.

Fonte: Wolfgan Hasselmann (da Unsplash)

E fuori Europa?

Ricordo soprattutto dei luoghi in Terrasanta: nel deserto del Negev, sul monte Tavor e sulla riva del lago di Tiberiade. I Luoghi Santi, in sé, non mi hanno trasmesso granché perché la presenza umana ha rovinato un po’tutto. C’è troppa gente. Il deserto del Negev, invece, è l’esatto contrario. Mi ha colpito per la qualità del silenzio, interrotto solo da qualche animale di passaggio. Avevo la sensazione di essere in montagna, perché si tratta di un deserto roccioso. Era impressionante, non coglievi la fine di quel silenzio. Del lago di Tiberiade, invece, ho un ricordo più tattile: sabbia finissima e una miriade di conchiglie fitte fitte… sembravano sassolini che si mescolavano con la sabbia. E poi c’è il monte Tavor! In realtà si tratta di una collinetta, ma se ti siedi lì e senti il sussurrare del vento tra le fronde, ti senti molto più vicino alla spiritualità (non voglio dire al Divino) piuttosto che nei Luoghi Santi “istituzionali”. Sto mescolando sensazioni di carattere auditivo e tattile, ma i miei ricordi sono fatti di impressioni diverse. Ah, dimenticavo! Un altro luogo che ho amato molto è la cattedrale di Fermo: città che adoro, peraltro. E’ in collina ma si sviluppa su vari livelli. Ti sembra di camminare in una città coperta, fatta di tanti edifici antichi vicini tra di loro. Per arrivare alla cattedrale, devi attraversare un giardino e mai e poi mai diresti che lì ci sia un duomo. Poi, di colpo, sbuchi sul sagrato. Ed entri. All’interno, mi ha colpito la qualità del silenzio, un silenzio che ti entra dentro senza gravarti addosso, senza opprimerti. Credo che dipenda dall’architettura.

Quando visiti un luogo che ti colpisce, provi il bisogno di “fermarne il ricordo”? O di tornarci?

No, non sento il bisogno di album (o di un surrogato della raccolta di fotografie). Il luogo tende a rimanermi dentro, magari solo un tantino più sbiadito. In genere non sento il bisogno di tornare, a differenza di quanto mi capita quando incontro una persona.

I colori non scompaiono: cambiano

Parliamo dei colori: come li percepisci? O meglio: com’è cambiata la tua percezione cromatica?

Bè, conta che io i colori li ho visti e questo certamente mi influenza perché in certi casi è come se proprio me li vedessi davanti. Il bianco, per esempio: anche per me è puro, secondo la valenza simbolica più diffusa. Ma non solo. Un rumore bianco è un rumore che riempie e copre tutte le frequenze possibili. Io lo sento nello scrosciare della pioggia. Il rumore dell’acqua che scroscia è “totale”: qualcosa di simile alla luce, copre non perché nasconda ma nel senso di pienezza interiore. E’ per questo che amo ascoltare i temporali. Inevitabilmente poi, soprattutto per certi colori, parto dai miei ricordi: il blu mi rimanda al cielo perché è qualcosa che ho visto.

Prima parlavamo della funzione compensativa degli altri sensi. Ti ha aiutato anche nella percezione del colore?

Sì. Non vedendo più i colori, ho compensato questa mancanza con i suoni: essere musicista, infatti, mi ha portato ad associare le tonalità musicali a certi colori.

… Cioè a sviluppare una sensibilità sinestetica. Fammi qualche esempio.

Il Mi maggiore mi evoca il verde. Fa maggiore: blu. Sol maggiore: giallo. Do maggiore: tra giallo e bianco. Do minore: più giallo che bianco. Mi minore: tra verde e il giallo. Rosso: tutti i Re sia maggiori che minori. Quando faccio musica è come se fossi immerso nei colori. Tra l’altro la correlazione tra colori e musica, è un’associazione sdoganata: pensa a Kandinskij, per esempio. Oppure: hai mai sentito parlare del clavier à lumières?

No. Cos’è?

Si tratta di un pianoforte inventato nel 1910 da Scrjabin per l’esecuzione di “Prometeo o il poema del Fuoco”: in pratica, per ogni nota che suonavi veniva proiettato un colore diverso, che nelle intenzioni del compositore aveva una corrispondenza sinestetica con gli stati d’animo evocati dalla partitura. Non so se sia lo stesso per me, ma l’esempio è interessante.

Fonte: Daniel Levis Pelusi (da Unsplash)

Le corrispondenze che mi hai citato, sono le stesse per tutti gli strumenti? O la differenza di suono cambia la gamma delle associazioni?

Cambiano. La stessa nota, suonata su strumenti diversi ha per me un colore o una sfumatura differente. Al cembalo, per esempio, le tonalità cambiano molto: il Mi maggiore, lo associo sempre al verde ma si tratta di due sfumature diverse. Ed è come se ogni suono, sul cembalo, avesse un’indoratura diversa. Più argentina.

E i luoghi e le persone? Anche in quel caso ti viene spontaneo associare un colore?

No, luoghi e persone sono piuttosto un miscuglio strano di colori che non riesco a definire.

Al di là dei ricordi specifici, invece, esiste ancora dentro di te una memoria diretta del colore, che emerge di tanto in tanto?

Sì, a volte ho dei guizzi di colore: non so se si tratti di memoria o se la ragione abbia piuttosto a che vedere col nervo ottico, perché di fatto l’area visiva del cervello è sempre viva, suppongo.

E sul piano onirico? Come sono i tuoi sogni?

Come la veglia, non visivi. Basati sulla gamma di impressioni – auditive, tattili, olfattive ecc – che ho ricevuto durante il giorno.

C’è un colore di cui non abbiamo parlato: il nero.

Il nero per me evoca il buio. Qualcosa che vedo e con cui ho familiarità.

Il buio non è un colore ma un riflesso del vuoto. E come il Colombre, porta con sé un dono prezioso

Cos’è per te il buio? Assenza di luce?

No, non è l’assenza di luce: è il disorientamento, l’assenza di punti di riferimento.

E’ qualcosa che ha a che vedere con il pavor nocturnus, la paura del buio che ognuno di noi affronta da piccolo?

Solo in parte. Del pavor nocturnus, non c’è un corrispettivo vero e proprio: per me non si tratta più infatti di paura del buio, ma della paura di uno spazio in cui perdermi, in cui non so dove andare. Ti faccio un esempio, il piazzale di Lampugnano. Una volta aveva nevicato e col bastone non riuscivo a trovare punti di riferimento che mi aiutassero a prendere la direzione giusta. Paradossalmente ero in un contesto luminoso, quindi la mia non era paura legata all’assenza di luce. Però sì, un legame con il pavor nocturnus c’è: il fatto che nel buio non puoi distinguere i contorni delle cose, l’impressione che, non distinguendole, le cose assumano un aspetto inquietante.

C’è un legame, per te, tra il buio e il silenzio?

Sì, nel senso che evocano entrambi un senso di vuoto. Dal mio punto di vista, il vuoto è sempre stato abbinato all’estate, quando finiscono le attività e tutti vanno via. Per molti anni ho patito l’estate. Poi ho capito che quel vuoto che io percepivo come solitudine, in senso negativo, dipendeva in buona parte dal fatto che non avevo ancora imparato a star bene con me stesso. A quel punto, quando affronti quel nodo, i vuoti diventano un’opportunità per confrontarti con i tuoi fantasmi (che poi, a volte, somigliano un po’ a quelli che da piccolo vedevi nel buio). L’estate, negli anni, è diventata per me il momento della verità: impari a riconciliarti con i tuoi fantasmi e a non averne paura. Ho imparato a dar valore a quel tempo. C’è un racconto di Buzzati che amo molto e che descrive benissimo quello che voglio dire, il “Colombre”. Nel racconto, un uomo di mare passa tutta la vita a fuggire da un misterioso pesce che lo insegue. Solo alla fine, quando è ormai vecchio, l’uomo decide di affrontare il mostro. Ed è allora che l’animale gli rivela che in realtà non ha mai voluto ucciderlo e che lo inseguiva solo per consegnargli un dono.

Concludiamo con Buzzati, quindi. Qual è il dono che ti ha consegnato il tuo Colombre? Cosa ti ha dato il fatto di non poter vedere?

Mi ha dato tanto, certo… togliendomi al tempo stesso molte cose: non vedere mi ha dato l’opportunità di non giudicare dalle apparenze, ha accentuato una certa propensione alla riflessione, alla creatività. E poi mi ha permesso anche di affinare la sensibilità verso gli altri: la capacità di percepire la fragilità altrui in modo empatico, come qualcosa che riconosco e che mi riguarda da vicino.


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